La vostra giornata tipo assomiglia molto a quella di qualsiasi atleta di alto livello: allenamenti, programmazione, recupero, obiettivi. Qual è l’aspetto della vostra routine che sorprende di più chi non conosce da vicino il mondo paralimpico?
Agnese Romelli: “La cosa che sorprende di più è che è cambiato pochissimo rispetto a quando ero normodotata. Ho iniziato dopo un annetto a guidare la bici usando un braccio e “il braccio della bici” la protesi costruita apposta. Non è complicato, è solo un po’ doloroso, soprattutto su terreni sconnessi, bisogna evitare le buche e imparare a sopportare. Tutto qui”.
Andrea Casadei: “L’aspetto della mia routine che sorprende di più, a detta delle persone con le quali ho avuto occasione di relazionarmi, è sicuramente il volume di allenamenti che noi atleti paralimpici siamo soliti sopportare insieme alla costanza, alla meticolosità e alla determinazione che ci mettiamo, tutto indispensabile se si vuole aspirare a poter vincere qualcosa d’importante. Il volume di allenamenti lo si può comparare a quello di un atleta normodotato, anche gli esercizi spesso e volentieri sono gli stessi, in bici ma anche in palestra, ci siamo semplicemente dovuti adattare trovando un modo differente per eseguirli. Io, per esempio, faccio sei allenamenti in bicicletta, tra strada e crono, e due sessioni di palestra a settimana”.
Molti pensano ancora che un atleta paralimpico “si adatti” allo sport. In realtà è lo sport che si adatta all’atleta, proprio come accade a tutti. Qual è l’idea che vorreste cambiare definitivamente nelle persone che vi guardano da fuori?
AR: “Non vorrei cambiare nulla in verità, spesso sulla strada gli altri atleti normodotati con cui pedalo vedono l’assenza di un “pezzetto”. Questo crea curiosità e genera inclusione. Chi non conosce il nostro “mondo”, non sa che si può pedalare anche con limiti fisici. Noi possiamo, col nostro esempio, incentivare la conoscenza e la pratica dello sport con disabilità”.
AC: “Mi piacerebbe che nella testa delle persone cambiasse proprio la percezione della disabilità, ancora troppo spesso si viene visti come qualcosa di diverso del quale provare compassione. Ecco, vorrei che la disabilità agli occhi di tutti diventasse normalità. Per far sì che questo accada credo ci sia bisogno di maggiore visibilità a livello mediatico nei confronti di tutto il movimento paralimpico. Posso affermare con certezza che chi ha avuto modo di vedere qualche competizione sportiva paralimpica, e ciò che un atleta diversamente abile è in grado di fare, inizia lui stesso a vedere con “occhi diversi” la disabilità. Allo stesso tempo sarebbe uno stimolo per chi, diversamente abile, deve trovare la forza per mettersi in gioco. È ciò che è capitato a me, mi sono convinto guardando i giochi paralimpici di Rio 2016”.
Quando vi allenate, fate esattamente le stesse cose che fa un atleta professionista: programmazione, lavori specifici, test, recupero. Qual è l’allenamento o la parte della preparazione che preferite e perché?
AR: “La parte più soddisfacente è quando rientro a casa distrutta: casco e occhiali sul tavolo, mi siedo un attimo e sento di aver dato tutto. È quella sensazione di aver spinto nonostante stanchezza e impegni. È lì che capisci che l’allenamento è servito”.
AC: “La fase della preparazione che preferisco è quella del periodo invernale, dove si lavora molto sulla forza in palestra, in tutte le sue espressioni, trasformandola poi con esercizi specifici in bike. Scontato dire che per ottenere risultati sia importante affidarsi ad un buon preparatore sportivo, con il quale si deve instaurare un buon dialogo, un rapporto di fiducia e scambio di feedback. Se tutto va per il meglio è molto gratificante notare i miglioramenti prestazionali e il crescere della condizione fisica”.
Qual è la sfida più grande che avete incontrato nel vostro percorso e cosa vi ha insegnato sul vostro modo di essere sportivi?
AR: “La sfida più grande credo sia stata adattarmi al dolore dell’amputazione. Al contrario di quello che si è soliti pensare è presente e ti mette alla prova ogni giorno. Nel mio caso è sempre stato una sfida contro me stessa riuscire ad abituarmi e sopportare per evitare di assumere farmaci. Mi ha insegnato che non si arriva da nessuna parte senza soffrire”.
AC: “La difficoltà più grande che ho dovuto affrontare è stata sicuramente quella di diventare un atleta a 360 gradi, perché, a differenza di chi intraprende l’attività sportiva da bambino e cresce formandosi in funzione di essa, io ho iniziato a praticare ciclismo quando avevo trent’anni, dopo il mio incidente. Più di una volta nel mio primo anno da agonista ho pensato di essermi “buttato” in qualcosa di più grande di me. Ero entrato a far parte di uno dei team più forti al mondo ed ero attorniato da grandissimi campioni plurimedagliati. Mi sono sentito fuori posto. L’insicurezza a volte è parte di noi e viene amplificata da ciò che abbiamo intorno, ma oramai ero in ballo e dovevo ballare. Mai scelta è stata stata migliore”.
In occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità, che messaggio ti piacerebbe far arrivare agli appassionati del Giro d’Italia e del Giro d’Italia Women e a chi sogna di iniziare un percorso sportivo senza sentirsi “abbastanza adatto”?
AR: “Se non ti metti in gioco resti fermo. Iniziare è sempre la mossa giusta”.
AC: “Il messaggio che vorrei arrivasse è che non tutti gli eventi drammatici che ci capitano sono solo e necessariamente un male, a volte con tempo, volontà e impegno si riesce a trovare del buono anche in ciò che di brutto ci accade. A chi invece sogna di iniziare a fare sport e non si sente adatto posso solo consigliare di trovare il coraggio di “fare il primo passo”, poi il resto verrà da se… Metteteci sempre il massimo impegno, non mollate mai e vedrete che ognuno, a proprio modo, riuscirà a togliersi grandi soddisfazioni”.